Deadly game

Stanco di aspettare, mi incammino con passo fin troppo deciso e scendo le scale che portano in cantina, o meglio, a quella che una volta era la cantina. Da sei mesi a questa parte è diventata il suo laboratorio personale, del quale mi ha illustrato tutto, nome e utilizzo di ogni singolo oggetto. Risultato? Me ne ricorderò forse tre in croce, quelli che gli ho visto usare di più e che, quindi, si è ritrovato a spiegarmi diverse volte. A due metri dall’ultimo gradino ha fatto costruire una parete, per maggior sicurezza dice; chissà perché non ne sono troppo convinto. Apro la porta senza bussare, al diavolo le buone maniere! Mi sono stufato di stare ad aspettarlo come uno scemo, dato che tanto per cambiare è in ritardo.

Mi appoggio allo stipite e resto a fissarlo. Faccio sempre questo maledettissimo errore e il mio cervello, assieme a quel briciolo di buon senso che di solito ho, se ne va in poltiglia.

Se ne sta lì, davanti al becco Bunsen, su cui spicca la fiamma azzurra. Almeno questo l’ho imparato. Avvicina il filo di platino con sicurezza alla base della fiamma e poi lo porta nella zona più calda, facendola tingere di un rosso carminio affascinante, come lui con quell’espressione attenta. Seguo il profilo perfetto del suo viso, con un velo di barba sulla mandibola pronunciata e la mascella contratta. Gli occhiali con la montatura sottile gli conferiscono un’aria da intellettuale che, diversamente, non avrebbe affatto. Le labbra gli si tendono in un sorrisetto beffardo.

«Sai cos’è?»

La sua voce cristallina e baritonale riecheggia tra le mura della stanza e mi arrivano allo stomaco come un pugno. È sempre così, un effetto transitorio, come i colori delle reazioni chimiche che sperimenta di continuo e che non riesco a ignorare, a differenza sua.

Sbuffo alzando gli occhi al cielo, fingendo d’essere scocciato. In realtà non so nemmeno io se lo sono davvero, non mi dispiace restare a osservarlo mentre lavora, mentre mi irrita restare ad aspettarlo di sopra senza sapere se mi degnerà almeno di una parola o di uno sguardo.

«Cloruro di litio?»

«Bravo, stai imparando vedo».

Perché la mia voce deve stonare tanto con la sua? Perché non può incastrarsi alla perfezione come quella di Christa?

«Che vuoi mai, con tutte le volte che devo star qui perché sei in ritardo…»

«Sono in ritardo?»

«Ma va?»

Le sue mani non si sono fermate un istante, hanno continuato a ripetere quei gesti in modo preciso e meccanico, per concludere il tutto ruotando l’apposito anello girevole alla base del becco. Si volta e mi guarda, umettando le labbra dopo avermi inchiodato sul posto con quei suoi occhi ambrati.

«È già arrivata?» mi domanda togliendosi il camice, che getta sulla sedia alle sue spalle.

«No».

Sogghigna e viene verso di me, sbottonando la camicia. Com’è che d’improvviso fa così caldo qua dentro?

«Allora ho ancora tempo».

«Sì, hai ancora tempo per torturarmi con le tue cazzo di battutine e doppi sensi, stronzo».

Schiocca la lingua sul palato, mentre non accenno a spostarmi dalla porta, impedendogli il passaggio. Slaccia i polsini con lentezza, senza distogliere lo sguardo da me, faccia a faccia. Una spanna, dovrei solo allungare il braccio e potrei prendere ciò che voglio.

«È la parte più divertente del gioco, non vorrai rovinarla, spero».

«Divertente per chi?»

«Per me», sogghigna portando le mani ai fianchi, scoprendo completamente il torace.

Sottili graffi arrossano la sua pelle e attirano la mia attenzione. Le unghie di Christa sono affilate e appuntite il giusto, lo so bene anch’io, ma detesto vedere i segni su di lui.

«E quanto durerà questo gioco?»

Il luccichio che balugina nei suoi occhi è inquietante e allo stesso tempo una droga, velenoso e letale… la mia maledizione.

«Deadly game, darlin’. Ti avevo avvertito prima che iniziassi la tua partita».

Gli rispondo con un ringhio, mostrandogli i canini e lui sorride. Perché deve sorridere sempre? Mai un tentennamento, mai un segno di paura o dubbio. Mai!

«A cuccia, darling, adesso ho un altro impegno. Per cui stai buono fino al mio ritorno».

«E dove cazzo vuoi che vada? A farmi cacciare dai miei ex-compagni?!»

«Ecco, appunto. Lascia che pensi io a sistemare tutto, compreso il tuo branco».

«Con quella strega?»

«Certo, è qui per questo», chiarisce pacato, sfiorando il mio corpo col suo.

«Giuro che ti prendo e ti attacco al muro, se continui a tirare la corda in questo modo».

«Oh, ma dai? Strano, l’ultima volta che ci hai provato hai finito col perdere la partita. Non sei qui per questo?»

«Vai a farti fottere», gli sibilo contro.

Si avvicina ancora di più, facendo aderire la nostra pelle e le sue labbra mi lambiscono l’orecchio. Avrei dovuto mettere una maglia, ma la verità è che una parte di me cercava una scusa qualsiasi per sentirlo.

«Ci puoi giurare», mi sussurra sensuale.

Mai mettersi contro una creatura che ha visto la nascita del Tempo, tanto ti fregherà sempre e non sembrerà mai ciò che è.

Mi sposto e lo lascio passare, sconfitto in partenza… per ora. Prima o poi riuscirò a liberarmi dal suo giogo e da questo dannato gioco, che del gioco non ha niente. Si crepa sul serio, si sanguina, si fotte e si viene fottuti comunque, perché l’unico a vincere è soltanto lui.

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