Schegge di storie non so dove mi porterà. Ne lascio qui traccia, una scheggia alla volta, per raccogliere i ricordi e la storia di una donna.
Schegge di storie
Schegge – Parte 1
Grigio.
Nebbia che cala sui pensieri, avvolgendo l’anima, mentre i ricordi mi trascinano alla deriva.
«Vuoi essere la mia ragazza?» domanda spavaldo, gli occhi puntati sui miei a sfidarmi.
E io perdo la battaglia, abbassando lo sguardo. D’improvviso ho caldo, la faccia sembra andarmi a fuoco e il cuore batte forte… troppo forte.
«Sì», sussurro, intrecciando le dita tra loro e tormentandole senza sosta.
Silenzio.
Il cuore martella sempre più forte nelle tempie, rimbombando nelle orecchie. Sollevo titubante la testa e mi soffermo sul ghigno soddisfatto del vincitore.
«Sei mia, adesso. Lo sai, vero?»
No, non lo sapevo. Come avrei potuto? Ero così ingenua e affamata d’amore, divorata dal bisogno di essere accettata.
Cieca.
Il tempo mi ha insegnato la lezione, eppure, anche ora mi sento persa. Troppi dubbi, troppe paure e la confusione diventa una nebbia così fitta, da non riuscire più a distinguere me stessa.
Ho paura di perdermi di nuovo.
Ho paura di sbagliare.
Forse, ho solo paura di…
«Ciao!» La voce calda e un po’ roca di Matteo mi impedisce di sprofondare nella palude in cui mi ero inoltrata. «Scusa il ritardo, ma il capo non mi mollava più.»
«Non ti preoccupare, sono solo dieci minuti.»
Scuoto la testa e il sorriso sollevato che si dipinge sul suo volto, mentre ha ancora il fiato corto e i capelli spettinati imperlati di umidità, mi contagia.
Sorrido anch’io.
«Avevo paura che pensassi non mi importasse dell’appuntamento.»
Io, invece, avevo paura di innamorarmi…
«Ti importa?»
Mi allunga una mano, sicuro.
«Devi farmi conoscere la persona più importante della tua vita, no?»
Il cuore si ferma, gli occhi si riempiono di lacrime e non riesco a parlare.
«Speriamo solo che tua figlia mi prenda in simpatia.»
«Ti amo.»
Ormai è tardi per aver paura di qualcosa che è già successo.
Schegge – Parte 2
Ombre.
A volte sembrano così vere e reali da soffocarmi. Forse non se ne vanno mai, restano conficcate nelle pieghe dell’anima, in attesa.
Pazienti.
Ari dorme e Matteo è tornato a casa. Tutto è andato bene, allora perché sono qui con questa maledetta scatola? Perché continuo a nasconderla in garage, invece di buttare tutto?
«Stupida.»
Me lo dico da sola. Una verità amara, come il mio sorriso.
Allungo una mano per togliere il coperchio, ma trema. Ho paura. Mi fa ancora paura… tutto. La ritraggo di scatto e la stringo con l’altra, cercando di smetterla, di trovare il coraggio. Per me, per Ari… forse anche per Matteo.
Fisso la superfice ruvida di cartone e, pian piano, ciò che la circonda si dissolve, diviene sfocato, mentre della polvere che la ricopre potrei quasi contare i granelli. È come se i contorni di questa scatola fossero sempre più nitidi e lei si trasformasse in un buco nero, che mi risucchia.
Potrei perdermi lì dentro. Potrei non uscire più.
Non posso. Devo essere forte per Ari, per me stessa.
Ho la gola secca, brucia e deglutisco aria che fa ancora più male. Mi faccio male da sola.
«Basta!»
Con uno scatto la apro e getto il coperchio, nemmeno potesse ustionarmi, e guardo.
Una foto.
Io e Roberto. Una vita fa… un’altra vita. Lui mi stringeva a sé e ridevamo. Io sorridevo, eppure ero già distrutta dentro e si vede. Io lo vedo in quegli occhi, che sono miei, anche se vorrei non riconoscerli.
Dolore.
«Ma sei stupida? Guarda qui!»
Si alza di scatto e spinge il piatto davanti a me.
«Lo vedi? Ti sembra che possa mangiare questa roba?»
È un attimo.
Solo un attimo e mi ritrovo la faccia in mezzo agli spaghetti e al sugo.
Brucia, ma non riesco a urlare. Non riesco nemmeno a muovermi, il mio corpo non risponde, è un blocco di pietra dentro cui sono rinchiusa. Mi risolleva, tirandomi per i capelli.
«Questa roba va bene per i maiali. Mangiatela tu!»
Una spinta e mi ritrovo per terra. Sono caduta dalla sedia e non so neppure come. Mi guarda disgustato, ma allo stesso tempo, nei suoi occhi leggo soddisfazione. Mi ha schiacciata di nuovo e io posso solo strisciare.
Si gira e se ne va, esce sbattendo la porta e Ari inizia a piangere nella culla.
Devo alzarmi. Devo alzarmi.
Devo alzarmi per lei.
Urla e imprecazioni per ogni errore, o per niente. Non importava alla fine: era colpa mia e basta. Perché c’ero, perché respiravo, perché lo amavo.
Schegge – Parte 3
Ce la posso fare. Prendo la foto e la appoggio sul pavimento, con il rigore di un rito funebre, quello mai celebrato per la ragazzina stupida e innamorata che ero.
Se fossi stata più forte, più sicura. Troppi ‘se’ per una storia che non posso riscrivere.
Una scatolina nera, le scritte e il logo argentati consumati, quasi illeggibili. Ore passate a stringerla tra le mani, a strofinarla come fosse la lampada di Aladino e potesse ridarmi i pezzi d’anima che stavo lentamente perdendo. Uno a uno. Fatti a pezzi dalla sua rabbia, dilaniati nel silenzio, tra i singhiozzi soffocati e la paura.
La apro e osservo il pendente a cuore, brunito come la catenina. Allungo le dita per prenderlo, ma non ce la faccio.
Serro le palpebre e lotto per scacciare un ricordo che non voglio. Uno, dieci, troppi.
Perdo.
Lo specchio gelido premuto sulla faccia e il corpo incastrato sotto il suo. L’aria che manca.
Boccheggio.
Il dolore si appanna, la nebbia mi divora. La sua voce mi trattiene, mi accusa, mi vomita addosso l’ennesimo errore.
Mai alla sua altezza. Mai degna dell’amore che mi aveva attirata e catturata.
Arrivò il giorno in cui la catenina si spezzò e fu allora che provai a parlare. Per un attimo pensai di non meritare tutto ciò. Abbozzai il discorso e vidi gli sguardi, che credevo amici, dubitare.
«Sei sicura?»
Un dubbio. La mano scivola sul collo del dolcevita e lo tira più su. Coprire. Nascondere la colpa.
La mia colpa.
Non ero più sicura di quel livido?
No, era evidente, ma non ero più sicura d’essere innocente.
«È colpa tua, vedi cosa mi fai fare?!»
Sì, lo ripeteva di continuo e io credevo più a lui che a me stessa. Se qualcun altro dubitava, doveva aver ragione Roberto. Me l’ero meritata.
Chiudo la scatoletta e la stringo. Lì dentro conservo i resti di una ragazzina che non tornerà mai più.
Piango. Fa male.
Ho gettato i pezzi migliori di me in pasto a un uomo malato. Eppure, avrei detto fosse l’uomo migliore del mondo.
Schegge – Parte 4
Asciugo gli occhi, ma le lacrime continuano a scendere e lo sguardo torna sulla scatola. Una busta trasparente. Le dita sfiorano la plastica, che le separa dalla ciocca castana al suo interno. I miei capelli. Anni per farli crescere. Anni di amore verso di loro, che mi rappresentavano e mi facevano sentire bella.
«Ferma!»
La guancia pulsa, brucia. Fisso la mia immagine nello specchio e non ho il coraggio di guardarlo.
«Così impari»
Perché? Cosa ho fatto?
Singhiozzo.
«Ti ho detto di stare ferma o ti farai male.»
Strattona i capelli. Il suono del filo che taglia brutale, ciocca dopo ciocca, mi rimbomba nella testa.
«Ti avevo detto di non uscire con quella troia. Ma tu no, devi fare quello che ti pare. Ti sei divertita?»
Singhiozzo. È la mia migliore amica, non la vedevo da due mesi.
«Ti sei divertita?» urla, tirando più forte.
«U-Un caffè…»
«Zitta!»
Il suo respiro sul collo. Tremo.
«Adesso non sembri più una puttana.»
Li ha tagliati. Tutti. Li ha tagliati sopra le spalle.
Il dorso dell’indice sfiora il livido, scorre lento e delicato. Sa esserlo, quando vuole. Le labbra lambiscono l’orecchio e sussulto. Mi manca l’aria.
«Voglio un figlio» sussurra suadente, mentre la mano mi agguanta la gola. «Un bambino che porti avanti il mio nome.»
E io muoio. Respiro, ma soffoco.
Ari, la mia piccola Ari. Anche lei è stato un errore, perché doveva essere maschio. Invece, ho partorito una femmina. Sorrisi davanti a tutti e veleno su di me, che non ho saputo fare il mio dovere. L’ha odiata ancora prima che nascesse.
Piango.
Perché le ho fatto questo? Non merita un padre così, non le dovevo dare una vita così. Ma è la mia bambina.
Piango ancora.
Il cellulare squilla, un tuono nel silenzio del mio dolore. Poi il nome sul display: Matteo. Non si merita questo, me. Rispondo e trattengo il respiro.
«Sei sveglia, vero?»
«Sì» sospiro, perché la voce non esce.
«Sei in garage?»
Lo sa. Lui c’era. Sempre in un angolo, per tutto il tempo. Al centro, in tribunale, le battaglie per tenere Roberto lontano.
«Vuoi che torni lì?»
«Sì…» ti prego.
Aiutami a non annegare ancora.
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